Lu Bissu di Catro, continuano le ricerche!

Un sottile e anonimo foglio di lamiera rettangolare che sigilla ciò che resta del foro sulla volta di una piccola cavità, a ridosso della costa rocciosa di Castro (Le), nel giardino di un’abitazione privata: è questo l’ingresso ad una della più importanti grotte anchialine sul territorio italiano, custode di una eccezionale biodiversità che da sola copre oltre il 35% delle specie troglobie del territorio pugliese, con ben l’80% di endemismi. Per il catasto della grotte e cavità artificiali di Puglia è etichettata come PU 141, da tutti meglio conosciuta come Lu Bissu.

Attenzionata dalla comunità scientifica sin dal 1937; sfruttata in primis durante la seconda guerra mondiale (e poco dopo) per rifornire di acqua dolce gli equipaggi dei sommergibili (stando ad alcune testimonianza di alcune persone del posto) e successivamente per scopi irrigui; oggetto di studi per l’impatto delle variazione climatiche sul popolamento ipogeo, Lu Bissu, stupore e meraviglia per la biospeleologia italiana e non solo, soffre i postumi di un pesante inquinamento antropico che nel corso degli anni ha provocato pesanti ferite che faticano a rimarginarsi.

Una cavità molto delicata e pregiata, come il tessuto del quale prende il nome, il bisso: ampiamente diffuso sin dall’antichità nell’area del mediterraneo, dai riflessi dorati, ricavato dai filamenti necessari all’ancoraggio sul fondale roccioso secreti da un mollusco bivalve, la Pinna nobilis (oggi a rischio estinzione), che probabilmente un tempo viveva nella porzione sommersa della grotta.

Si sviluppa in un unico grande ambiente allungato in direzione SW-NE approssimativamente di 60mx28m, nella formazione dei Calcari di Castro, di colore bianco, con diffusa presenza di fossili, principalmente coralli, briozoi ed echinidi. Il pozzo di ingresso, poco più di 5 metri di profondità, immette direttamente su un cono detritico che sovrasta gli antichi crolli della caverna e che hanno contribuito alla formazione della cavità (alcuni visibili anche nella porzione sommersa della grotta) ed è principalmente costituito da scarichi di inerti e materiale di risulta. Questi celano probabili depositi secondari (la cui presenza è tradita da locali colate calcitiche e stalattiti di piccole dimensioni, particolarmente concentrate nei settori meridionali ed orientali). Si tratta di un fattore inquinante non di poco conto dato che, nel tempo, congiuntamente alla presenza di predatori terrestri esterni, l’influenza delle maree (che agiscono sul livello piezometrico della falda) e il forte emungimento di acqua a scopi irrigui (che ha compromesso la stabilità delle lente di acqua dolce e la conseguente variazione di salinità) ha incisivamente contribuito alla scomparsa (per lo meno documentabile) di alcune delle specie che popolavano questa cavità fino a pochi anni addietro.

Fossile di corallo all’interno della cavità

Più ad E rispetto all’ingresso principale, una seconda apertura dalle dimensioni molto modeste e oggi coperta da una boccapozzo, contribuisce ad una parziale e debole illuminazione dell’ambiente in alcune ore del giorno. Ulteriori indagini in presunte prosecuzioni sommerse sono invece rese difficoltose dalla presenza di enormi massi in equilibrio precario.

La grotta è oggetto di studio sin dal 1937, anno in cui il prof Stammeri dell’Università di Breslavia scopri tre nuove specie: due copepodi e un acaro. Da allora seguirono numerosi studi ad opera dei principali biospeleologi italiani tra i quali Sandro Ruffo, che catalogarono complessivamente 15 specie animali, 10 acquatiche e 5 terrestri (Lohmannella stammeri, Hadoblothrus gigas, Metacyclops stammeri, Metacyclops subdolus, Hadzia minuta, Salentinella gracillima, Typhlocaris salentina, Trichoniscus ruffoi, Spelaeomysis bottazzii, Stygiomysis hydruntina, Monodella stygicola, Pseudolimnocythere hypogaea, Italodytes stammeri, Glomeris stammeri, Troglopedetes ruffoii).

Ricercatori a lavoro nella grotta

Nel novembre del 2021, il GST ha avuto il piacere di accompagnare ed assistere, per ricerche di carattere genetico sulla popolazione locale di Typhlocaris salentina (uno tra i più grandi stigobionti italiani), due ricercatrici del National Institute of Oceanography di Haifa, Israele, Tamara Guy-Hai e Ximena Velasquez-Dubinsky.

Ricercatori a lavoro nella grotta

Domenica 11 febbraio 2024 il GST ha collaborato con il Laboratorio Ipogeo Salentino di Biospeleologia “Sandro Ruffo” e i ricercatori dell’Università Statale di Milano e del CNR IRET di Lecce nell’ambito del progetto PRIN 2022 “STIGE-CLIMAQUIFERI” (STygofauna at the Interface between surficial and Groundwater Ecosystem: CLIMate change effects on AQUatic Invertebrates Fitness, Energy and Resource use in Italian aquifers), finalizzato allo studio di comportamento e distribuzione della fauna sotterranea presente nel Salento. Tra i suoi obiettivi, STIGE-CLIMACQUIFERI si propone di collegare la distribuzione delle specie ipogee ed epigee di invertebrati salentini con le condizioni climatiche e le caratteristiche energetiche del nostro territorio.

Ricercatori a lavoro nella grotta
Ricercatori a lavoro nella grotta

L’esperienza si è ripetuta anche sabato 11 maggio 2024, giornata durante la quale i soci del GST hanno inoltre asportato dalla cavità alcuni sacchi di rifiuti, reti, vetro, mattonelle in ceramica, tubi in gomma e plastica, una pompa di emungimento e alcune strutture di supporto in metallo ormai corrose dalla ruggine, al fine di tentare, per quanto possibile, un ripristino dello stato dei luoghi.

Tubi di gomma utilizzati per emungere acqua a scopi irrigui
Rimozione dei rifiuti dalla cavità
Alcuni dei rifiuti rimossi dalla cavità

La ricerca continua. #staytuned!

Marco Piccinni

Bibliografia:

SALVATORE INGUSCIO, EMANUELA ROSSI, MARIO PARISE, MARIANGELA SAMMARCO, Grotta Lu Bissu (Pu 141), hot spot della biospeleologia italiana, in Thalassia Salentina 32 (2009), pagg. 113-128

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